Pubblicato il 17 novembre 2015 da asipp
Valentina, hai avuto un’esperienza molto difficile con il tuo primo figlio. Ci racconti come è andata?
E’ stato tutto così veloce che non impiegherò moltissimo a raccontare le vicende della mia prima gravidanza. Avevo 28 anni e GP ed io volevamo diventare mamma&papà. Rimasi incinta in fretta, senza alcuna fatica. A diciannove settimane, il mio sacco amniotico si rompe. Di colpo e senza infezioni di nessun tipo; il mio bambino però sta bene e la gravidanza continua. A ventiquattro settimane una minaccia d’aborto, a 26 settimane la gestosi: la pressione alta, lui senza liquido amniotico, io che prendo un kg al giorno solo di liquidi, i reni non funzionano. A 28 settimane i medici decidono di far venire al mondo il mio Samuele. 872 grammi d’amore e di tubicini e un’altra odissea davanti, quella della terapia intensiva neonatale, durata 62 giorni.
- Quali sono state le fatiche maggiori?
Senza dubbio tirare fuori la grinta, necessaria ed anzi indispensabile, per poter trasmettere la giusta forza al mio bambino che lottava con le unghie e con i denti per restare attaccato alla vita. C’erano mattine in cui mi sarei solo girata dall’altra parte, a piangere. E invece lui, il mio cucciolo di nemmeno un chilo, mi ha insegnato cosa significhi davvero lottare per la vita.
La fatica nell’impotenza. Un’apnea, l’allarme suona e tu, sua madre, non puoi fare nulla, se non attendere che qualcuno arrivi e risolva la situazione.
La fatica dell’arrivare in ospedale e non sapere in che condizioni avremmo trovato Samuele.
La fatica, enorme, di tornare a casa la sera e trovare la sua culla vuota; la fatica della fiducia nei medici ed in chiunque si avvicinasse alla sua navicella per curarlo, cambiarlo, toccarlo.
- Nel tuo libro “Ovatta” parli del senso di fallimento nel non essere stata in grado di portare a termine la gravidanza. Come si vive con questo senso di colpa e come si arriva a farci pace?
Non ci si fa pace, per davvero, mai. Io vivrò sempre con la sensazione di avere un corpo che, almeno per un momento (fondamentale) è stato difettoso ed incapace di rappresentare un nido sicuro per mio figlio. Come tutti i grandi dolori, il tempo ne attenua gli spigoli, rende meno soffocante l’urlo quando ci sbatti contro con il gomito, ma non si guarisce. Certo, la mia seconda gravidanza portata a termine mi ha assolutamente aiutata a pensare che il mio corpo fosse in grado di essere anche quello di una mamma nel vero senso della parola!
- Questa esperienza ha influenzato il tuo modo di vivere la seconda gravidanza e poi il secondo parto? Se si, in quali termini?
La pancia di Beatrice (la mia seconda bimba), è stata la pancia della paura. Ero monitorata, costantemente, dai medici ma prima di tutto da me stessa. Temevo di poter rivivere quello che già mi era accaduto con Samuele. Durante la seconda gravidanza, avevo paura di qualsiasi cosa, temevo che qualsiasi cosa ingerissi o con cui venissi in contatto avrebbe potuto scatenare reazioni a catena fatali. Poi, invece, tutto è andato bene. Il secondo taglio cesareo si è svolto nella stessa sala in cui era nato, 23 mesi prima, il mio Samuele. Questa volta l’atmosfera era più distesa e non avevo uno stuolo di neonatologi pronti a prelevare il neonato dalla mia pancia.
Questa volta è stato tutto più naturale, nonostante si trattasse anche in questo caso di un cesareo. La possibilità di prendere in braccio subito la mia bambina è stata per me fonte di un’emozione impagabile. Ero una mamma normale!
- Un’emozione che si ritrova nel libro è sicuramente la rabbia. Che fine ha fatto?
La rabbia verso quello che può riservare la vita, la rabbia verso la superficialità nei discorsi delle persone, la rabbia verso me stessa, è vero: “Ovatta” ha come sottofondo una musica dai toni cupi e duri. Caratterialmente, non ho mai perdonato a me stessa con leggerezza i miei errori o le cose che mi sono riuscite male. Parimenti, fatico a perdonare chi si comporta con superficialità nei confronti degli altri. Per questo, anche in questo caso non posso dire che sia completamente passata, anche se devo ammettere che è lì, silenziosa, questa rabbia. Ogni tanto fa capolino e ringhia un po’.
- Nel racconto parli con sincerità del cinismo che ti porta a dire “meglio agli altri, alcune complicazioni, che a me” Togli forse un po’ il velo su tabù ancestrali. E’ questa una delle cose guadagnate da questa esperienza?
E’ terribile ed è stato terrificante dirlo, ammetterlo, metterlo su carta, ma è tremendamente onesto e sincero. Tuo figlio è lì, lotta tra la vita e la morte ed un soffio potrebbe portarlo via. Quando un segnale acustico di allarme suona, ti auguri che non sia quello dell’incubatrice di tuo figlio.
Che non significa augurarsi che al bambino accanto accada qualcosa di brutto, spero sia chiaro; significa solo che in quei momenti, capisci perfettamente il significato della parola egoismo, della protezione a tutti i costi di chi hai dato alla luce.
- Nel libro racconti di compagni di viaggio non graditi, come gente comune o professionisti, che ti hanno infastidito o ferito con frasi per te inopportune. Quali sarebbero state le domande che avresti accolto meglio?
Il grosso problema erano proprio le domande. Avrei voluto qualcuno accanto che potesse semplicemente ascoltare in modo aperto ed inclusivo, che non si ponesse con atteggiamento giudicante nei miei confronti. Questo era ciò che passava, all’epoca, nella mia testa. Il Tempo mi ha poi raccontato un’altra versione della verità: non erano gli altri a giudicarmi, ero io stessa. E gli altri rappresentavano quella parte di me che non accettavo. Certo è che certe frasi, una su tutte il “ma sì, tanto deve solo crescere”, con cui si minimizzava l’impatto che la prematurità può avere nei soggetti non le ho mai digerite.
- In che modo i professionisti del settore materno infantile dovrebbero stare vicino ad una mamma di un bimbo prematuro? Cosa dovrebbero evitare e cosa invece potrebbe risultare utile o comunque buono per queste donne?
Sicuramente mettendosi a disposizione delle madri in terapia intensiva, senza dubbio. In attesa, però. Non ho amato il ‘giro visite’ della psicologa. Capisco che gli ospedali abbiano i loro ritmi, ma penso che il supporto psicologico debba essere parte integrante delle attività della terapia intensiva e che debba essere a disposizione di chi abbia bisogno, voglia o ritenga utile confrontarsi con qualcuno che ascolta in modo consapevole e competente. Credo che sarebbe stato utile avere a disposizione dei gruppi di ascolto; noi mamme parlavamo nella sala tiralatte, ma la possibilità di potersi confrontare in modo “ufficiale” all’interno dell’ospedale, magari con la moderazione di uno psicoterapeuta sarebbe stato utile.
- Immagina che una mamma, alle prese con la stessa esperienza, stia leggendo questa intervista. Cosa vorresti dirle?
Credo che l’unica cosa che le si possa dire è che i bambini prematuri sono dei leoni e che anche se li vediamo piccolissimi l’energia di cui dispongono per stare in vita è davvero enorme. Che non bisogna abbattersi, che è opportuno parlare, buttare fuori le proprie emozioni, senza timore. Che il mio bambino di 872 grammi senza liquidi amniotico e con due giri di cordone ombelicale attorno al collo in questo preciso istante è a scuola, frequenta la seconda elementare con ottimi risultati, mi fa arrabbiare perché non mangia la verdura e vive tra le nuvole, come tutti i bambini di tutte le madri del mondo le fanno arrabbiare e le fanno gioire (a volte senza soluzione di continuità).
L’incipit è stato duro, di quelli che non ti auguri e che non vorresti nemmeno per il tuo peggior nemico, ma grazie alle cure delle mani sapienti di medici ed infermieri siamo qui, non siamo solo sopravvissuti. Viviamo una vita felice, ed una vita felice è stata possibile.
A cura di Paola Cipriano